giovedì 18 luglio 2013

Amore, mal d’amore o dipendenza affettiva?


L’ amore porta molta felicità, molto più di quanto struggersi per qualcuno 
porti dolore

Albert Einstein


«Lo amo da morire», «lo amo più della mia stessa vita». Chi di noi non ha sentito queste frasi almeno un centinaio di volte? Ma è vero che si può morire d’amore? È possibile amare così tanto fino a dipendere da una persona come fosse una droga?
Un tempo i francesi parlavano di amour fou (amore folle), oggi gli anglosassoni parlano di love addiction; ma una cosa è certa: quando l’amore diventa ossessione che procura malessere piuttosto che benessere e serenità, non possiamo più parlare d’amore ma di ‘dipendenza affettiva’.
Nella fase iniziale di una relazione affettiva, durante l’innamoramento, una quota di dipendenza e fusione sono assolutamente normali: estremo coinvolgimento, i pensieri sono tutti rivolti al partner con il quale si desidererebbe trascorrere più tempo possibile. Ma con lo stabilizzarsi del rapporto, questa ‘normale dipendenza’ dovrebbe tendere, naturalmente, a diminuire. Una relazione equilibrata, infatti, è basata sulla reciprocità dove amare ed essere amati viaggiano sullo stesso binario. Amare significa riconoscere l’altro, la sua identità, riconoscerne e rispettarne gli spazi, le distanze e i confini. L’amore è, sì, fondato sulla generosità e l’altruismo, ma dovrebbe essere anche ‘sanamente egoistico’.

Nella dipendenza affettiva questo bisogno di fusionalità non si attenua ma, al contrario, si esaspera, fino a raggiungere livelli così estremi da diventare patologici. Gabbard (1995) ha ben descritto le principali caratteristiche di una persona con dipendenza affettiva: essa non è in grado di prendere decisioni in modo autonomo, ha un atteggiamento di sottomissione verso gli altri, ha continuo bisogno di rassicurazioni e necessita della presenza di persone che si prendano costantemente cura di lei. In genere si tratta di persone inibite, che vivono nel terrore di essere abbandonate e, nel momento in cui una relazione significativa finisce, si sentono letteralmente ‘perse’, provando disagio e paura di fronte alla sola idea di stare sole. Sono talmente ‘affamate d’amore’, che per farsi voler bene sono disposte anche ad accettare situazioni spiacevoli, umilianti e per chiunque intollerabili (Lingiardi, 2005). Secondo un Rapporto dell’Istat (2007), tra gli episodi di varie forme di violenza sulle donne, il 67, 7% accade per responsabilità di mariti, conviventi o fidanzati. Queste violenze, secondo l’indagine, rimangono voci silenziose, soffocate e spaventate, resta infatti non denunciato il 93% delle violenze subite da un partner. Dato altrettanto preoccupante è che  il 33% di queste donne addirittura non parla con nessuno della violenza subita.
Chi è, dunque, il dipendente affettivo?

È una persona che non è libera di amare l’altro per ciò che è realmente e che allo stesso tempo non riesce a farsi amare per le sue peculiarità, per la sua natura. Ama e si lega all’altro per paura, paura di non essere degno d’amore, di essere ignorata, restare sola o essere abbandonata. Così, finisce per soffocare ogni interesse, bisogno, desiderio, rapporto con gli altri, dedicandosi completamente al partner che diventa l’unico scopo della sua esistenza e, con il tempo, della sua identità.
Come già accennato, una delle caratteristiche di una persona con dipendenza affettiva dal partner è proprio la difficoltà a riconoscere i propri bisogni, mentre tutte le sue energie sono convogliate nei bisogni e problemi dell’altro. Alla luce di ciò, non è un caso che, generalmente, questa tipologia di presone vada spesso ad incastrarsi in relazioni con partner problematici, a volte anche portatori di altri tipi di dipendenza (alcool, sostanze, fenomeni di gambling…). Nell’aiutare il partner in difficoltà, vengono, infatti, negati i propri bisogni, perché il disagio dell’altro sembra occupare molto più spazio. Questo tipo di aiuto si rivela ben presto deleterio perché non farà che rafforzare la dipendenza dell’altro, per la paura di perderlo, per legarlo a sé per sempre.

Le persone che soffrono di dipendenza affettiva sono portatrici di un profondo senso di inadeguatezza, sono convinte che per ricevere amore si debba sempre essere eccessivamente brave, affabili, pronte a sacrificarsi per l’altra persona, anche quando questo significa farsi del male.
Spesso, anche se non necessariamente, il partner di una persona con dipendenza affettiva ha la caratteristica di sembrare irraggiungibile: più queste persone vengono rifiutate, più la loro dipendenza si accresce. Alla base di questo meccanismo che può sembrare assurdo, vi è la ‘presunzione di farcela’, l’apparente certezza che si riesca a fare in modo che la persona irraggiungibile diventi raggiungibile e che possa amare le persone dipendenti affettivamente esattamente nel modo in cui queste pretendono di essere amate.
Dalla letteratura risulta che, delle persone dipendenti affettivamente, il 99% sono di sesso femminile (Miller, 1994). Non vi è una fascia d’età “tipicamente dipendente”, infatti la dipendenza sembra essere una caratteristica di personalità per lo più trasversale: dalle post-adolescenti, fino alle donne adulte con figli.
Un dato altrettanto interessante è quello costituito dal fatto che la dipendenza affettiva sembra essere tendenzialmente associata al Disturbo Post-traumatico da Stress (DPTS), dunque si osserva in genere questa forma di dipendenza in persone che hanno subito maltrattamenti o abusi. Tale dato invita a riflettere sul fatto che vi possa essere una plausibile consequenzialità tra i due aspetti e che eventi disturbanti e traumatici possano essere responsabili dello sviluppo di dipendenza affettiva. A questo proposito, Norwood (1985) suggerisce che persone che hanno sviluppato dipendenza affettiva sono accomunate dal fatto di essere cresciute in famiglie con caratteristiche peculiari: al di là degli specifici problemi presenti in tali famiglie, appare chiaro che adulti dipendenti affettivamente sono stati bambini sminuiti nella loro capacità di comprensione dei bisogni e sentimenti propri e altrui, che hanno avuto difficoltà nella gestione dei rapporti interpersonali. Questi elementi condurranno inevitabilmente queste persone a cadere nelle pericolose trappole della dipendenza affettiva.

 Dott.ssa Silvia Ferretti
  

BIBLIOGRAFIA

Gabbard O.G. (1995). Psichiatria psicodinamica, Raffaello Cortina Editore, Milano
Lingiardi V., Personalità dipendente e dipendenza relazionale. In: V. Caretti e D.La Barbera (2005), a cura di, Le dipendenze patologiche, Raffaello Cortina Editore, Milano.
Miller D., 1994, Donne che si fanno male, Feltrinelli, Milano.
Norwood R., Donne che amano troppo, 1985, Feltrinelli, Milano. 

martedì 16 luglio 2013

Lucian Freud, nipote della psicoanalisi, pittore della quotidianità.

Ha dipinto fino all’ultimo giorno della sua vita quando è scomparso nel suo appartamento di Londra dopo una breve malattia: «Voglio che la pittura sia carne», affermava. Ed è proprio questo il realismo che ritroviamo nelle sue opere: ritratti di donne e uomini veri, volti e corpi nudi che lo hanno reso celebre in tutto il mondo.

Due matrimoni finiti con due divorzi e la bellezza di una quarantina di figli, tra legittimi e non; nel 2003 ha ritratto Kate Moss nuda e in dolce attesa. Alcuni tra i suoi quadri più celebri sono stati venduti alle aste di Christie’s.

Kate Moss e Lucian Freud.
Lucian era nipote del più celebre Sigmund, padre della psicoanalisi. Nato a Berlino nel 1922, all’età di 11 anni emigrò con la famiglia a Londra per sfuggire al regime nazista. Da quel momento in poi la sua vita si svolse completamente nel Regno Unito, dove morì il 21 luglio del 2011. 
Un'immagine del pittore.

Le immagini che contraddistinguono la sua arte sono decisamente crude, a base di istinto e senza sconti, a volte choccanti e grottesche, in linea con la pittura dell’irlandese Francis Bacon. Una carne mostrata in tutto il suo realismo, flaccida, cadente, repellente e oversize: un modo di ritrarre che spoglia l’individuo dei suoi orpelli e lo mostra così com’è, palesando il Sé più profondo e vero. 
Un lavoro psicologico simile a quello precedentemente ideato da Sigmund Freud con il quale non poteva che esserci una profonda sintonia di sensibilità e di intenti: l’inconscio colto da Sigmund attraverso una maieutica socratica, tramite un dialogo inconscio empatico tra paziente e psicoanalista e l’inconscio dipinto da Lucian e che ritroviamo esternalizzato, quasi ostentato, sui corpi inermi, goffi e sgraziati che il pittore amava dipingere. Lucian ha spogliato di maschere e vestiti i suoi ritratti, riportandoli alla realtà e alla più vera quotidianità. 



lunedì 15 luglio 2013

Una breve presentazione: chi siamo.



Siamo tre donne, laureate in psicologia clinica e di comunità presso La Sapienza di Roma, specializzate in psicoterapia ad indirizzo psicoanalitico. Ma non solo. Crediamo nel valore formativo dell’arte, della creatività, della fantasia e della curiosità. Ci piace conoscere, osservare, viaggiare, leggere, fotografare, ma anche ascoltare le storie di vita delle persone, accogliere la loro sofferenza e lavorare per trasformare il dolore in forza e profondità di sguardo.


Abbiamo deciso di creare questo blog per condividere le nostre osservazioni ed emozioni con chi abbia il piacere di leggerci e desideri accostarsi al mondo della psicologia: per ricordare e ricordarci che mente e corpo sono indivisibili e ci guidano nelle scelte della nostra vita quotidiana.